Brown, Trisha

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Trisha Brown. Fonte: wikipedia.org

Data di nascita
25 novembre 1936
Data di morte
18 marzo 2017
Paese
Categoria
Biografia

Trisha Brown, nata ad Aberdeen (Washington) nel 1936, maturò una lunga preparazione tecnica che iniziò con lo studio di varie discipline quali danza accademica, jazz, tip tap e acrobatica. Nel 1958 si laureò al Mills College di Oakland dove approfondì la tecnica Graham e i metodi di Louis Horst. Si dedicò inoltre all’apprendimento della tecnica Dunham con Ruth Beckford e frequentò i seminari estivi dell’American Dance Festival dove si formò con José Limon e Merce Cunningham. Nel 1960, dopo aver insegnato al Reed College di Portland, partecipò al workshop di Anna Halprin, grazie alla quale iniziò a esplorare l’improvvisazione come metodo creativo e performativo. Trasferitasi a New York, seguì il corso di composizione coreografica di Robert Dunn, per poi fondare insieme a Simone Forti, Yvonne Rainer e Steve Paxton il collettivo del Judson Dance Theater, identificato come l’origine della post-modern dance. Qui intraprese un percorso di ricerca che rivoluzionò il concetto di performance e che fu allo stesso tempo fonte e riflesso della propria attività coreografica. Le sue prime creazioni, quali Trillium (1962), Lightfall (1963) e Rulegame (1964), furono fortemente influenzate dal contesto artistico e culturale dell’avanguardia newyorchese a cui prese parte partecipando a happenings e collaborando con il movimento artistico Fluxus. Contemporaneamente si avvicinò alle tecniche di educazione somatica, in particolare la Kinetic Awareness e la Klein technique, che accompagnarono il suo lavoro sul corpo segnandone la qualità di movimento.

Dalla fine degli anni Sessanta il suo percorso coreografico fu contraddistinto da una serie di cicli che furono realizzati con diversi approcci creativi. Il primo fu quello degli equipment pieces che, durato dal 1968 al 1973, fu incentrato sul rapporto del corpo con la gravità e sull’interazione con contesti urbani. In essi il silenzio, sulla scia dell'insegnamento di John Cage, offre uno spazio capace di accogliere ogni possibilità sonora. Lavori esemplari di questo periodo furono Man Walking Down the Side of a building (1970), Leaning Duets (1970), Walking on the Wall (1971) e Roof Piece (1971).

Negli anni Settanta, oltre a partecipare alle performance del collettivo Grand Union e a fondare la Trisha Brown Dance Company, composta di sole donne fino al 1980, iniziò il ciclo degli accumulation pieces che, privilegiando la dimensione temporale rispetto a quella spaziale, impiegava il principio matematico dell’accumulazione come fondamento del processo creativo. Il 1979 fu poi un anno cruciale nella sua carriera coreografica con la creazione di Glacial Decoy, primo lavoro ideato per il contesto teatrale. La nuova situazione performativa determinò un recupero della musica e un impiego tridimensionale e decentralizzato dello spazio, aprendo così la strada a importanti collaborazioni sia con musicisti come Laurie Anderson e Peter Zummo che con artisti visivi quali Robert Rauschenberg, Fujiko Najaka, Donald Judd e Nancy Graves.

Gli anni Ottanta si aprirono con il ciclo denominato “strutture molecolari instabili” che incluse coreografie quali Opal Loop/Cloud Installation #72503 (1980), Son of Gone Fishin’ (1981) e Set and Reset (1983). In esso Trisha Brown sperimentò uno stile fluido ma imprevedibilmente geometrico e una nuova modalità compositiva basata sull’alternanza di momenti di totale controllo ed altri di
abbandono al libero flusso dell'emozioni. Verso la fine del decennio passò al "ciclo coraggioso", esemplificato da Newark (1987) e Astral Convertible (1989), dove spinse i ballerini ai loro limiti fisici e approfondì il tema del gender creando specifici movimenti per il corpo maschile e per quello femminile.

Gli anni Novanta furono caratterizzati da due indirizzi: il ciclo Back to Zero, in cui indagò il movimento inconscio in lavori come Foray Forêt (1990) e For M.G.: The Movie (1991), e da quello musicale, in cui cercò di tradurre i principi musicali in criteri rilevanti per la danza come in M.O. (1995) e Twelve Ton Rose (1996). In questo periodo si confrontò anche con la produzione lirica, interesse che aveva iniziato a maturare nel 1987 quando curò le coreografie della Carmen diretta da Lina Wertmüller al Teatro San Carlo di Napoli. Le sue regie d’opera furono: Orfeo di Claudio Monteverdi (1998), Luci Mie Traditrici di Salvatore Sciarrino (2001), Winterreise di Franz Schubert (2002), Da Gelo a Gelo di Salvatore Sciarrino (2006) e Pygmalion di Jean-Philippe Rameau (2010). Nell’ultima fase della sua carriera creò O zlozony / O composite (2004), il suo primo lavoro per una compagnia di balletto, e ricorse alle nuove tecnologie in I love my robots (2007), risultato della sua collaborazione con il visual artist e robotics designer Kenjiro Okazaki. Morì a San Antonio, Texas, nel 2017.

Trisha Brown fu tra i principali coreografi della post-modern dance. Partecipe di quella collettività giovanile anti-establishment che cercava un’alternativa culturale e artistica, assorbì gli stimoli delle neoavanguardie e li rielaborò creando una propria danza. In cinquant’anni di carriera la sua arte, pur sottoposta a un ininterrotto processo d’invenzione e reinvenzione, presentò delle coordinate fondamentali che caratterizzarono la sua poetica: la ricerca di un nuovo corpo danzante, la raffinatezza del vocabolario gestuale, l'improvvisazione come modalità creativa, la continua esplorazione dello spazio, l’interdisciplinarità e la riflessione sul rapporto tra musica e danza. Oltre ad essere un’eclettica coreografa, Trisha Brown fu un’importante visual artist e le sue opere furono esposte in mostre, gallerie e musei di tutto il mondo tra cui la Biennale di Venezia, il Drawing Center di Philadelphia, il il Walker Art Center, il Musée d'art Contemporain de Lyon e il Museum of Modern Art.

Bibliografia

Roland Aeschlimann, Hendel Teicher, Maurice Berger, Trisha Brown: dance and art in dialogue, 1961-2001, Cambridge, The MIT Press, 2002

Sally Banes, Tersicore in scarpe da tennis. La postmodern dance, a cura di Eugenia Casini Ropa, traduzione di Manuela Collina (tit. orig.: Terpsichore in Sneakers: Post-Modern Dance), Macerata, Ephemeria Editrice, 1993

Sally Banes, Before, Between, and Beyond: Three Decades of Dance Writing, Madison, Wis., University of Wisconsin Press, 2007

Rossella Mazzaglia, Trisha Brown, Palermo, L’Epos, 2007

Rossella Mazzaglia e Adriana Polveroni, Trisha Brown. L’invenzione dello spazio, Pistoia, Gli Ori, 2010

Rossella Mazzaglia, A Wish to Fly: Trisha Brown’s Dancing Life, in «Danza e Ricerca», n. 9, dicembre 2017

Olga Moll, Christine Roquet, Trisha Brown et J.S. Bach: Pour une offrande qui ne soit pas un sacrifice, in «Recherches en danse», dicembre 2014

Susan Rosenberg, Trisha Brown. Choreography as Visual Art, Middletown. Wesleyan University Press, 2017

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SMO

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Modificato
18/06/2019

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